Il Natale di quando ero piccola (dodicesima parte.)
Assunta Arte racconta il Natale della sua infanzia.
Mani bambine a raccogliere muschio
Il vento di tramontana tramortiva le ultime foglie di cerri e querce oltre il piano che qui si chiama della Nevena. Sui tronchi, le nostre piccole mani scollavano muschio da riporre nelle tre cassette da riempire. I Monti Alburni innevati apparivano in lontananza come un pandoro a cui era stata staccata una fetta. Mio padre ci indicava con un dito il nome dei paesi della valle mentre noi soffiavamo fiato nelle nostre mani gelide. Era nelle domeniche di novembre che iniziava il nostro Natale. Muschio e vischio nell’odore di terra e muffa ci trasportava nella grande stanza di una casa bellissima ed accogliente dove avremmo contribuito a realizzare il presepe.
Anche i viaggi a Napoli facevano parte del rito, con le botteghe di San Gregorio Armeno che ci deliziavano di pastori e greggi, magi e cammelli, Madonne e Bambinelli. Quanto mi piacerebbe rivederli ancora. A me e alle mie due sorelle ci rendeva felici quel rito che era un tutt’uno con lo stupore dei miei zii e delle mie zie insieme ai cugini che, alla vista del nostro presepe, parevano essere in un viaggio in Galilea.
Mio padre era un maestro che con dovizia di dettagli lo rendeva particolare. Ricordo che una volta mise in panchina un mugnaio che gli sembrava sproporzionato nelle dimensioni, mentre fu particolarmente clemente con un pastore che aveva perso una gamba per via di una caduta da una scatola traballante.
Che magia il ricordo di quel tempo. Fra casa mia e quella di nonna Vita ci dividevamo nei giorni del camino acceso da mattina a sera, e la grande macchina organizzativa che le donne di casa mettevano insieme era per il pranzo di Natale per una tavola da trenta posti.
La casa palazziata in Via X Maggio evocava riti antichi di tradizioni tramandate dai miei bisnonni ai miei nonni e a mia madre, e anche il nome della via era di per sé tutta una storia da raccontare.
Nella cucina immensa, ornata di mattonelle bianche, in grandi padelle, affogavano nell’olio bollente calzoncelli e cartellate, anguille e baccalà. Ricordo di aver scritto il mio nome la prima volta con un dito, sul vapore dei vetri sottili, come mi era stato appena insegnato: tina!
Ora comprendo. A noi bambini, inconsapevoli di quel senso di famiglia, veniva iniettato, attraverso quel clima, il senso della felicità.
Il giorno di Natale era il saggio di tutto quanto era stato preparato nei giorni precedenti e, pensandoci adesso, era un vero e proprio sipario del viaggio appena iniziato.
Un susseguirsi di giorni di neve e campane a festa dal ventiquattro al sei del mese successivo dell’anno appena arrivato. Un viaggio che era come preparare le valige dell’anima e il suo rito scandito, con una precisione infallibile, di cose da fare ed emozioni da attraversare.
I doni non erano nella slitta di un Babbo Natale, che arrivò molti anni dopo, ma nella missiva alla Befana scritta da noi tre sorelle nelle letterine che si compravano al tabacchino.
Erano feste che finivano col botto nelle notti senza sonno a pensare come avrebbe fatto lei, vecchia e malandata, a sbucare dal camino con la calza di nonna che rimaneva appesa mesi con dentro fichi secchi e mandarini. Fu proprio quell’anno che lei, la Befana, anziché portarmi bambole e carrozzino mi portò un trenino. Stizzita le scrissi: “Cara Befana sono Tina e ti ricordo che sono una bambina”.
Picerno 30 dicembre 2021.