Raccontare storie per costruire ponti. (Anno secondo ).(17 )
Lina De Bonis : Usanze pasquali nella mia famiglia.
Sono Lina De Bonis, ho 63 anni e sono una maestra in pensione: dopo 42 anni, questo è il primo anno scolastico che non insegno ! Ora vivo qui, a Tito, prima vivevo a Potenza. Mia madre spesso mi ripete che io ho fatto il contrario, cioè loro (mio padre e mia madre) dal paese (Pietragalla) si sono trasferiti a vivere in città, mentre io dalla città mi sono trasferita nel paese. Cosa parzialmente vera, dato che da alcuni anni, anche Tito si chiama “città”!
Delle usanze pasquali di quando ero bambina ho vaghi ricordi, come dei flash, per il fatto che a Potenza noi eravamo soli perché non c’erano nonni, zii e cugini con i quali portare avanti delle tradizioni e, quelle della città non le conoscevamo. Dal punto di vista religioso frequentavamo la chiesa di San Giovanni Bosco, del rione Risorgimento. Il Giovedì Santo partecipavamo alla lunga funzione che comprendeva la lavanda dei piedi, ma io non ho mai visto come avveniva perché la chiesa era grande, c’erano tante persone anche in piedi, nei corridoi fra i banchi e, noi bambini seduti dietro, non riuscivamo a vedere nulla. Ammiravamo estasiati i tanti “Sepolcri” belli, colorati, di tante forme, arricchiti con fiori primaverili e profumati che venivano messi, uno vicino all’altro, a un lato della chiesa. Noi non ne preparavamo a casa.
Il Venerdì Santo, mia madre diceva che dovevamo rispettare il lutto perché era morto Gesù: non ci faceva accendere né la radio né la televisione. Nel mio cuore di bambina mi dispiaceva per Gesù, ma non vedevo l’ora che finisse quella giornata che sembrava non passare mai per quell’innaturale silenzio.
Di pomeriggio, quando ero una ragazzetta, ricordo che partecipavo alla Via Crucis che si svolgeva per le strade del rione. Molte persone la seguivano, altre si affacciavano ai balconi e alle finestre, altre che stavano per strada, si fermavano e aspettavano che la processione scorresse davanti a loro per poter continuare a fare quello che facevano prima, le macchine venivano fermate e i negozianti uscivano davanti alle porte o alle vetrine dei negozi.
Il Sabato Santo era “un tempo sospeso”! Se decidevamo di andare alla messa della notte, che era lunghissima, spesso noi bambini ci addormentavamo sulla spalla di mamma o di papà o, se erano venuti da Pietragalla, sulle spalle o in braccio ai nonni materni. Se, invece, andavamo alla messa della domenica mattina respiravamo la felicità: era bellissimo svegliarsi perché suonavano le campane a festa che annunciavano la Resurrezione di Gesù!
Per strada si vedevano tante persone, tutte vestite bene, alcune molto eleganti che sorridevano contente e si fermavano a scambiarsi gli auguri di “Buona Pasqua” e a chiacchierare allegramente, sia prima che dopo essere stati a messa.
Almeno una settimana prima di Pasqua, a casa, mia madre voleva che si facessero le grandi pulizie: si spostavano i mobili, si puliva sugli armadi, si lavavano le serrande, i vetri di finestre e balconi, le tende, i lampadari. Tutti collaboravamo. Alcuni anni mio padre decideva di rinfrescare anche i muri, passandovi sopra della tempera col pennello. Si aspettava la “benedizione” della casa e della famiglia che un prete, insieme ad un chierichetto, passava a fare di casa in casa.
Come preparazioni pasquali, mia nonna faceva dei biscotti a forma di bambina o di bambino, con dei confettini colorati sopra “la semenzella” e anche dei cestini che chiamava “scarcedde”, dentro i quali si infilavano delle uova. Queste cose le preparava a casa e poi le portava a cuocere al forno del paese. Mia madre, invece, aveva imparato a fare “la pastiera”, di cui qualche amica sua le aveva dato la ricetta. Solo che la faceva con il ripieno di riso, al posto del grano e della ricotta.Usava un pentolone di colore celeste, dentro smaltato di bianco, e quando cuoceva il riso nel latte, insieme allo zucchero e ad altri aromi, il profumo si spandeva in tutta la casa. A me veniva l’acquolina in bocca e non vedevo l’ora di assaggiarlo. Una volta, vi tuffai dentro il cucchiaio, lo riempii e lo svuotai nella mia bocca. Il riso era bollente e io mi scottai: dal palato si staccavano dei lembi di “pellicola”! Nei giorni successivi, mangiai poco o niente, per lo più cibi freddi e liquidi, perché mi ero scottata il “cielo” della bocca, come diceva mia nonna.
A Pasqua noi bambini, scolaretti delle elementari, facevamo vedere il lavoretto che avevamo preparato a scuola e recitavamo la poesia; poi davamo gli auguri e gli adulti ci davano qualche moneta. Mio padre voleva che, insieme agli auguri, gli dovessimo anche baciare la mano. A me questa cosa non piaceva farla e un anno dissi “NO”! Non baciai la mano e mio padre non mi diede niente come regalo di Pasqua, ma da quell’anno fu abolita quell’usanza. Il giorno di Pasqua mangiavamo la frittata fatta con il finocchietto selvatico, le uova cucinate lesse, pasta al forno o cannelloni ripieni, carne al sugo e agnello arrostito o cotto in forno con le patate.
Un anno mio padre comprò, qualche giorno prima, un agnellino vivo e lo portò a casa. Io, mio fratello e le mie sorelline ci giocammo insieme. Il giorno di Pasqua nessuno di noi mangiò l’agnello: sentivamo ancora nelle orecchie il suo verso, avevamo negli occhi l’immagine dell’agnellino che correva dentro casa con noi e non riuscivamo a smettere di piangere.
I nostri genitori compravano per ognuno di noi l’ uovo di cioccolato, che era piccolo in verità, sempre perché ne dovevano comprare quattro. Forse costavano non più di 350 lire ognuno, quelli che sceglievano. Oggi sarebbero meno di 20 centesimi! Noi aspettavamo con ansia il giorno di Pasqua per aprirlo e vedere la “sorpresa” che c’era dentro, che poi era un soldatino di plastica, un anellino o qualche altra sciocchezza, ma noi eravamo contenti lo stesso. Una volta mi regalarono una piccola bambola, con a fianco un uovo di cioccolato. Chissà perché io mi aspettavo di trovare una bella sorpresa, ma grande fu la mia delusione quando aprii l’uovo e lo trovai vuoto!
Non avevamo l’abitudine di trascorrere la Pasquetta fuori di casa, perché mio padre lavorava in ospedale come infermiere e faceva i turni: se di mattina dalle h 06,00 alle 14,00; se di pomeriggio dalle 14,00 alle 21,00; se di notte dalle 21,00 alle 06,00. Se aveva lavorato di notte, di giorno era stanco e voleva dormire un po’. Raramente, o forse mai, gli sarà capitato di avere o di chiedere la giornata libera perché chi lavorava nel giorno festivo, aveva diritto all’indennità “festiva” nello stipendio e qualcosa in più faceva sempre comodo, dal momento che lavorava solo lui e noi eravamo quattro figli in casa.
Tito 4 aprile 2022.